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quel principio ond'elli indige

Paradiso, XXXIII, 133-141

Qual'è 'l geomètra che tutto s'affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond'elli indige,

tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l'imago al cerchio e come vi s'indova;

ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la  mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.

Come lo studioso di geometria si concentra con tutte le sue facoltà mentali per risolvere il problema della quadratura del cerchio, e non riesce a trovare quel principio di cui avrebbe bisogno,

tale ero io dinanzi a quella straordinaria visione, che invano volevo capire come l'effigie umana si adattasse alla forma del cerchio e potesse trovarvi luogo;

ma le mie ali non erano capaci di farmi volare tanto in alto: se non che la mia mente fu percossa da una folgorazione, grazie alla quale il suo desiderio si compì.

Dove siamo

Siamo alla conclusione dell'ultimo canto della Commedia: lo slancio creativo di Dante si tende in un supremo sforzo di esprimere l'inesprimibile. Ma, per dirlo con Salvatore Battaglia, "...considerando la molteplicità e la gravità dei problemi che il poeta-teologo aveva a disposizione, e che forse l'assediavano con la loro ardua responsabilità, ci colpisce l'apparente semplicità, si direbbe l'asciutta ed elegante trasparenza, con cui Dante ha ideato il 'capitolo' finale della sua 'Commedia'. E' sorprendente, come sempre d'altronde, ma qui in maniera singolare, il valore essenziale dell'espressione dantesca, la limpidezza del disegno, e soprattutto la severa selezione dei suoi elementi".

Qualche breve commento

I versi citati tentano di spiegare la presenza contemporanea, nel Verbo, della natura umana e di quella divina. La difficoltà di questa spiegazione è paragonata a quello che può essere considerato il problema principe della geometria classica: la quadratura del cerchio. Forse proprio per questo Dante aveva riservato questa citazione al momento più complesso e delicato della sua opera.

"s'indova": uno dei tanti neologismi di Dante, a partire da un avverbio usato come sostantivo, del tipo "insemprarsi" o "insusarsi".

Il riferimento

Il problema a cui fa riferimento Dante è quello della quadratura del cerchio, uno dei tre lasciati insoluti dalla geometria greca (gli altri sono la trisezione di un angolo e la duplicazione del cubo). Dante sembra propendere, in questi versi, per la insolubilità di questo problema, considerato che lo paragona a quello di comprendere il mistero dell'Incarnazione, anche se la dimostrazione effettiva di questo fatto risale a molto tempo dopo (Lindemann 1882). Potete anche leggere qualche considerazione generale sul problema delle quadrature.

Altri riferimenti in Dante

Paradiso, XIII, 124-129

Vie più che 'ndarno da riva si parte,
perché non torna tal qual e' si move,
chi pesca per lo vero e non ha l'arte.

E di ciò sono al mondo aperte prove
Parmenide, Melisso e Brisso e molti,
li quali andaro e non sapëan dove;

sì fé Sabellio e Arrio e quelli stolti
che furon come spade a le Scritture
in render torti li diritti volti.

Chi si mette alla ricerca del vero e non possiede l'arte che sola potrebbe aiutarlo, si accinge ad un viaggio che gli riuscirà ancor più che inutile: prima di partire era solo ignorante, ora che torna è anche carico d'errore.

E offrono al mondo chiara testimonianza di ciò Parmenide, Melisso, Brissone, e molti altri, i quali procedevano nella loro ricerca senza rendersi conto delle conseguenze;

così fecero Sabellio e Ario e tutti quegli eretici che falsano il significato delle Scritture come i colpi di spada sfigurano i volti [oppure come le spade che riflettono, deformandolo, il volto di chi si specchia].

Qui la citazione che ci interessa è quella del sofista Brissone (o Brisone), un matematico, secondo alcuni, della scuola di Euclide, citato da Dante in questo contesto perché deriso da Aristotele in quanto ostinato ricercatore della quadratura del circolo. Frequentemente citato assieme ad Antifone (o Antifonte), é oggi considerato figura rilevante nella storia della matematica. Come spesso succede, anche se gli sforzi di Brissone risultarono tanto vani da meritargli lo scherno di Aristotele e, conseguentemente, di Dante, i suoi lavori contengono un germe fecondo e cioè l'uso della tecnica dei poligoni inscritti e circoscritti, poi perfezionata e mirabilmente applicata da Archimede. Sostanzialmente Antifone ebbe l'idea di usare i poligoni inscritti con un numero sempre maggiore di lati, mentre Brissone vi aggiunse l'idea di usare anche i poligoni circoscritti.

La Geometria si muove intra due repugnanti a essa, sì come 'l punto e lo cerchio - e dico «cerchio» largamente ogni ritondo, o corpo o superficie-; ché, si come dice Euclide, lo punto è principio di quella, e, secondo che dice, lo cerchio è perfettissima figura in quella, che conviene però avere ragione di fine. Si che tra 'l punto e lo cerchio sì come tra principio e fine si muove la Geometria, e questi due a la sua certezza repugnano; che lo punto per la sua indivisibilitade è immensurabile, e lo cerchio per lo suo arco è impossibile a quadrare perfettamente, e però è impossibile a misurare a punto. E ancora la Geometria è bianchissima, in quanto è senza macula d'errore e certissima per sé e per la sua ancella, che si chiama Perspettiva.

Multa etenim ignoramus de quibus non litigamus; nam geometra circuli quadraturam ignorat, non tamen de ipso litigat; theologus vero numerum angelorum ignorat, non tamen de illo litigium facit; Egiptius vero civilitatem Scitharum ignorat non propter hoc de ipsorum civilitate contendit.

Discussione

pagina pubblicata il 03/11/2003 - ultimo aggiornamento il 26/01/2004